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Tutto il mondo sul Vesuvio con uno spot d’altri tempi

(da Il Mattino del 20 Agosto 2006)

(di Pietro Gargano) Il 6 Maggio 1880 fu inaugurata la Funicolare del Vesuvio, una vertigine. L’idea futurista venne al finanziere Ernesto Emanuele Oblieght; la concretizzo l’ingegnere milanese Olivieri per conto della “Societè anonyme du chemin de fer funiculaire du Vèsuve”. Due vagoncini, il Vesuvio e l’Etna, affannavano lungo tre rotaie, la più grande al centro, e risalivano le pendici viola del vulcano. Ma erano quasi sempre tristemente vuoti. La paura del nuovo, forse pure l’antica superstizione, tenevano lontani i potenziali utenti. Perchè sfidare la ben nota furia del vulcano? L’inviato speciale dell'”Illustrazione Italiana”, Nicola Lazzaro, registrò il dissenso: “E’ una profanazione, è come togliere la poesia al monte”.
Come reagire? La pubblicità è l’anima dei commerci, e la campagna di propaganda fu affidata, forse per scherzosa sfida, a due autori di provato valore: il giornalista napoletano Peppino Turco e il musicista stabiese Luigi Denza. Ne uscì una canzone per la Piedigrotta di quello stesso anno, Funiculì funiculà.
Gli autori la scrissero nella villa della famiglia Denza sulla collina di Quisisana a Castellammare e la presentarono, cantandola pure, nei saloni dell’albergo Stabia Hall. Denza era al pianoforte, e l’ammiragli Acton si unì al coro. Poche dopo una grande festa fu data dal principe di Moliterno, velieri e barche erano illuminati, gli equipaggi cantavano quella canzone appena nata e già famosa.
La qualità della musica era straordinaria, Richard Strauss la riprese in “Aus Italien”. Alcuni brani furono utilizzati da molti altri autori colti e celebri. Si distinse, ad esempio, Gustav Mahler che utilizzò la canzone ai limiti del plagio nel lied “Wo die schoenen trompeten blasen”.
L’eco fu strepitosa anche economicamente: gli affari Funicolare prosperarono d’incanto, ai botteghini si formò la fila. Soprattutto, Funiculì getto le fondamenta della canzone d’arte napoletana. Il giornale di Turco, il “Capitan Fracassa” di Roma, ne pubblicò il testo, e poi quelli di altri brani, e vide aumentare le tirature. Il direttore del “Corriere del Mattino”, Martino Cafiero – altrettanto famoso come dongiovanni: diede un figlio, morto piccolo, all’attrice Eleonora Duse – reagì ordinando ai suoi due redattori più giovani e ambiziosi di scrivere a loro volta canzoni. I due giovanotti erano Salvatore Di Giacomo, uno dei più grandi poeti italiani dell’Otto-Novecento, e Roberto Bracco, il drammaturgo che non ebbe il premio Nobel solo perchè antifascista. Presto si aggiunsero ai pionieri Ferdinando Russo e tanti altri poeti e compositori.
I motivi per sostenere la tesi della primogenitura di Funiculì funiculà – l’abbiamo più volte ricordato – non mancano. Il primo riguarda la musica: si rifaceva al canto popolare, prendeva le mosse dall’improvvisata e da “Lo zoccolaro” che a metà Ottocento Teodoro Cottrau aveva ripreso dalla voce di un venditore ambulante e trascritto in uno di suie suoi fascicoli musicali che tanto piacevano ai viaggiatori stranieri.
Veniva da una tradizione antica, dunque. Eppure Funiculì era diversa da quel canto, perchè provava la possibilità di un patto d’arte tra la poesia, fosse pure di propaganda, e la musica, fosse pure d’occasione. Indicava un rapporto, nuovo e stretto, tra un poeta e un musicista di assoluto valore. La vena colta degli autori sarà una costante nel decollo della canzone classica, prima dell’arrivo – in verità rapido – di verseggiatori e musicisti di spontanea formazione.
Inoltre Funiculì, splendida quanto orecchiabile, fu la prima a essere utilizzata dalla primordiale industria di Piedigrotta, di cui Napoli non seppe mai approfittare fino in fondo. In un anno, secondo la tradizione, se ne vendettero un milione di copielle e le casse della milanese Casa Ricordi – affacciatasi nel 1864 sul grasso mercato di Napoli, da sempre, appunto, incapace di ricavare benefici pratici dai suoi talenti – ne ricavarono notevoli introiti. Da allora l’occasione di Piedigrotta, ch’era stata resuscitata nel 1876 per iniziativa dei benedetti giornalai, diventò contenitore di un concorso permanente che aveva per lo scopo principale la diffusione commerciale della canzone, fino ad allora portata tra la gente dalle postegge e dai pianini costruiti nella fabbrica di Vittorio Fassone, ch’era anche compositore di belle canzoni, come “‘A tazza ‘e cafe” e “Barcone ‘nchiuso” su versi di Giuseppe Capaldo, e “‘Ncopp’ ‘a ll’onna” su versi di Libero Bovio. “Te voglio bene assaje” dell’occhialaio Raffaele Sacco, apparsa nel 1839, aveva si rappresentato il primo vero appuntamento fra il popolo e la canzone, aveva venduto 180mila copielle, ma non aveva arricchito nessuno e non era frutto di un’intesa fra gli autori, al punto che il musicista è tuttora sconosciuto.
Funiculì funiculà rappresentò dunque la partenza di un percorso industriale e insieme di una singolare rivoluzione culturale, basata sull’uso al miglior livello possibile della lingua napoletana e del patrimonio musicale accumulato nei secoli: un sussulto nel tramonto della vecchia capitale diventata più povera di storia e più ricca d’arte. Napoli è una delle poche città al mondo che possono in ogni momento ritrovare, perfino oggi tra le miserie della colonizzazione globale e del consumismo musicale, segni vitali della cultura propria. Se Turco e Denza si differenziavano da moltissimi che vennero dopo è perchè seppero cogliere il senso del futuro nei vagoncini che sferragliavano verso il cratere.

Aieressera, oi’ ne’, me ne sagliette,
tu saie addo’?
Addo’ ‘stu core ‘grato cchiu’ dispiette farme nun po’!
Addo’ llo fuoco coce, ma si fuie
te lassa sta’
E nun te corre appriesse, nun te struje, ‘sulo a guarda’!…
Jammo ‘ncoppa, jammo ja’…
funiculi’, funicula’…

Troppi altri, a Napoli, confonderanno poi il presente con la nostalgia del tempo perduto. Luigi Denza nacque a Castellammare di Stabia, il 23 febbraio 1846, nell’albergo Inglese gestito in Via Mazzini 32 dai genitori (che in seguito sempre a Castellammare rilevarono il Quisisana): l’hanno scoperto nel 2000 due ricercatori stabiesi, Angelo Acampora e Pippo D’Angelo, frugando negli archivi dell’anagrafe; a Denza hanno dedicato un bel libro con l’inventario completo delle sue composizioni.
Fu apprezzato allievo al conservatorio di San Pietro a Majella di Mercadante e di Serrao, Denza. E forse avrebbe preferito che la fama gli venisse dalla musica seria piuttosto che dalla canzone di Piedigrotta. Molto giovane aveva composto romanze da camera – “Occhi di fata” e “Se…” le più famose – contendendo all’amico Francesco Paolo Tosti il primato di quel genere. Quattro anni prima di Funiculì, nel 1876, la sua opera lirica Wallenstein – su libretto di Angelo Brunner – era stata applaudita al San Carlo.
E invece furono le canzoni. Alla prima, “T’arricuorde” del 1869, erano seguite almeno altre cinquanta, pubblicate in dieci fascicoli dall’editore B. Giannini. Tra esse, “Voce luntana” su versi di Salvatore di Giacomo e “Mnummare e mmummarelle” su versi di Rocco Pagliara. Inoltre “Duorme”, “Facite Ammore”, “Lu telefono”, “Rosa”, “Tirate ‘a rezza”, “Uocchie nire”, “Quanno passo pe la via”. Perseguitato dal successo di quella canzonetta, nel 1890 Denza si trasferì a Londra, dove finalmente poté dare prova della sua bravura nella musica classica. diventò direttore della London Academy of Music e maestro di canto (dal 1898) della Royal Academy of Music. Abitava in un villino a St. John’s Wood. D’estate tornava tra gli amici stabiesi per scampagnate allegre e cori davanti al pianoforte circondato da belle dame. Morì a Londra il 27 gennaio 1922.
La città natale gli ha dedicato un busto nella villa comunale e la scuola media di via Persica. Sul palazzo natio nel 2001 è stata affissa una lapide su cui ci sono incisi un pentagramma con alcune note e parole della canzone celebre.